Bassano nella seconda metà del Novecento

Una “quasi città” contemporanea

Giovanni Favero, bassanese, è professore associato di Storia economica nel Dipartimento di Management dell’Università Ca’ Foscari di Venezia e direttore scientifico dell’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Vicenza. Si è laureato nel 1995 in Storia presso la medesima università, ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia urbana e rurale a Perugia nel 1999 dopo aver fatto ricerca e insegnato all’École des Hautes études en sciences sociales di Parigi. Si occupa di storia della statistica, di storia dell’impresa e di storia della città e del territorio. Homepage personale: http://virgo.unive.it/gfavero/

Alcune domande

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Nel corso della seconda metà del novecento, Bassano ha conosciuto una fase di notevole sviluppo, sia pure interrotta da crisi importanti, che ne ha consentito la progressiva trasformazione da polo industriale inserito in un contesto rurale a centro di servizi per un’area a industrializzazione diffusa. L’industria è uscita dalla città per insediarsi nel territorio circostante; o meglio, la crisi della grande fabbrica della città è stata accompagnata dallo sviluppo dell’industria nel territorio. Eppure a questo processo, che ha fatto della città un centro funzionale per un’area piuttosto vasta a cavallo di diverse province, non ha fatto riscontro una parallela crescita di rango all’interno delle gerarchie urbane territoriali e amministrative: perché? E che ruolo hanno giocato le scelte politiche, in particolare quelle dell’amministrazione comunale, in questa evoluzione dall’esito ambivalente? In qualche modo, sono questi gli interrogativi da cui traggono origine alcune ricerche recenti di chi scrive che qui in parte vengono riassunte (Favero 2007; 2013).

Bassano prima del Novecento

Quelle domande trovano risposta non solo nelle vicende dell’espansione urbanistica dell’ultimo cinquantennio, ma anche nella lunga e complessa storia precedente della città. Bassano è situata in una posizione strategica, all’intersezione del fiume Brenta con la strada pedemontana che, attraversando il suo famoso ponte di legno, collegava sin dall’alto medioevo i centri manifatturieri e commerciali fioriti lungo la fascia collinare veneta grazie soprattutto all’abbondanza di acque correnti e allo sviluppo di un’agricoltura specializzata. Naturale sbocco commerciale per queste attività, favorita dal facile collegamento fluviale con Padova e Venezia, la città e i suoi immediati dintorni videro fiorire nel corso del Seicento e del Settecento attività legate alla torcitura e filatura della seta, alla produzione di maioliche e alla stampa (Vianello 2004; 2006). È sin dal tempo della dominazione veneziana che Bassano si configura come un tipico caso di “quasi città”, vale a dire un insediamento che presenta molte delle caratteristiche proprie di un centro urbano tanto dal punto di vista architettonico quanto da quello sociale ed economico, senza tuttavia ottenere il riconoscimento dello statuto giuridico di “città” (Chittolini 1990; Svalduz 2004). Formalmente riconosciuta come tale soltanto nel 1740, dopo la caduta della Repubblica Bassano fu tuttavia inclusa nel dipartimento napoleonico del Bacchiglione, e da allora rimase parte della provincia di Vicenza.

Dopo la profonda crisi attraversata nella prima metà dell’ottocento, la città e il comprensorio videro rifiorire attività commerciali e artigianali legate alla produzione di ceramiche e di grappa, accanto all’oreficeria, ai calzaturifici, ai mobilifici e alla lavorazione del tabacco, favorite dall’apertura del collegamento ferroviario con Padova nel 1877, cui solo nel 1908 fece seguito una linea per Venezia e addirittura nel 1910 l’allacciamento con la linea austriaca che da Trento scendeva fino a Primolano (Favero 2012). Quest’ultimo contribuì peraltro a dare ulteriore stimolo all’emigrazione temporanea al stazione trenidi là del vicino confine con l’Impero asburgico, che in questa fase svolgeva comunque una fondamentale funzione nel garantire l’apporto di risorse economiche necessarie per la sussistenza della popolazione, soprattutto nella Valsugana (Berti 1993). La fragilità di questo equilibrio divenne evidente
allo scoppio della guerra in Europa nell’agosto del 1914, quando migliaia di emigranti furono costretti a rientrare, ponendo per la prima volta a livello locale la questione di una disoccupazione diffusa, solo temporaneamente risolta dall’avvio di opere pubbliche e dalla successiva chiamata alle armi (Favero 2003b). La chiusura degli sbocchi migratori nel dopoguerra rese infatti più acuti i problemi occupazionali, mentre forti contrasti esplodevano nelle campagne tra mezzadri e proprietari terrieri: la violenza squadrista e la presa del potere da parte del partito fascista imposero infine lo scioglimento delle leghe contadine, ma il consolidamento in ambito locale del nuovo regime richiedeva risposte al problema della disoccupazione che non fossero semplicemente repressive (Favero & Mondini 1999).

La città esce dai suoi confini

Fu così grazie ai generosi incentivi offerti dall’amministrazione comunale dell’epoca che divenne possibile nel 1924 l’insediamento a Bassano di una grande industria per la produzione di attrezzature e oggetti metallici smaltati, la Smalteria e metallurgica veneta (Smv, o «le Smalterie», come veniva indicata l’azienda nel linguaggio quotidiano), costruita sul terreno retrostante la stazione ferroviaria dai Westen, imprenditori provenienti dall’area mitteleuropea che era appartenuta all’Impero Asburgico (Favero 2003a). In seguito alla diversificazione dei prodotti, la fabbrica arrivava già nel 1930 a dare impiego a circa cinquecento, che risultavano quasi raddoppiati nel 1935 e ulteriormente aumentati nel 1940, con evidenti conseguenze sull’occupazione e sui flussi migratori interni: Bassano da zona di emigrazione divenne nel periodo fra le due guerre uno dei poli industriali della regione, capace di attirare forza lavoro da un’area che copriva buona parte del Veneto centrale.

Ma gli effetti della crescita della Smv non si limitarono agli aspetti direttamente legati alle dinamiche di sviluppo industriale. La presenza di un grande stabilimento industriale situato nell’immediata periferia a est della città ebbe infatti importanti conseguenze anche sullo sviluppo urbano: la forte immigrazione di forza lavoro determinò negli anni trenta una notevole domanda di alloggi, che non trovando risposta in città si indirizzò in parte al di fuori dei confini comunali, lungo il prolungamento di viale Venezia nel territorio di Cassola, nella zona detta “del Termine”. La formazione di un agglomerato residenziale continuo a cavallo fra due comuni pose sin da subito il problema di adeguare i confini amministrativi alle dimensioni assunte dall’abitato. Sebbene nel primo dopoguerra molte grandi città avessero ottenuto di allargare i propri confini comunali fino a comprendere i comuni della prima cintura, la richiesta avanzata in quegli stessi anni da Bassano per aggregare tutti i territori compresi in un raggio di cinque chilometri dal centro incontrò insormontabili ostacoli a livello provinciale.

D’altra parte Bassano non era capoluogo di provincia, e i tentativi avviati attorno al 1928, nel decennale della vittoria, per istituire una provincia del Grappa, si infransero contro l’impegno esplicito contenuto nei Patti Lateranensi (art. 17), stipulati nel febbraio 1929 tra il governo italiano e la Santa Sede, a far coincidere le sedi delle diocesi con i capoluoghi di provincia esistenti.

Anche i tentativi avviati nel secondo dopoguerra per risolvere la questione del “Termine” attraverso un accordo di compensazione territoriale con il Comune di Cassola fallirono, lasciando aperto il problema costituito da un ampio quartiere esterno che continuava a crescere.

Ricostruzione morale e materiale

angarano confrontoA partire dal marzo 1946, per tutto il cinquantennio seguito alla Liberazione e alla breve parentesi in cui il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) nominò direttamente i sindaci Antonio Gasparotto e Primo Silvestri, le giunte che si succedettero alla guida della città furono formate esclusivamente da rappresentanti eletti nelle liste della Democrazia Cristiana. Alla continuità politica corrispose tuttavia una progressiva ridefinizione delle priorità di intervento e delle linee di sviluppo privilegiate.

Il primo obiettivo era la ricostruzione «materiale e morale» della città. Se l’insistenza sulla «ricostruzione morale» contraddistingueva la volontà delle forze moderate di ottenere una rapida rappacificazione degli animi che mettesse una pietra sopra a quanto avvenuto negli anni della guerra e dell’occupazione tedesca, il significato da attribuire alla «ricostruzione materiale» era invece condiviso nelle grandi linee anche dagli altri partiti del CLN: le principali urgenze riguardavano infatti il ripristino delle principali infrastrutture viarie, la forte disoccupazione e la carenza di alloggi.
Per la verità, già qui la «ricostruzione» si configurava come qualche cosa di più di quel che il termine di per sé indica: le infrastrutture ricostruite erano più moderne e più estese di quelle distrutte dalla guerra, e d’altra parte il problema degli alloggi non trovava origine soltanto negli effetti dei bombardamenti, ma risaliva alla completa stasi nelle costruzioni verificatasi a partire dalla metà degli anni trenta in seguito al blocco dei fitti e alle politiche autarchiche del governo fascista. I fondi stanziati dai governi del primo decennio repubblicano permisero di avviare una fase di notevole espansione tanto dell’edilizia popolare pubblica quanto di quella privata, mentre i «lavori a sollievo della disoccupazione» consentivano di ampliare gradualmente la rete stradale di collegamento con i principali centri della pianura, verso Trento e Asiago e verso le frazioni collinari e montane.

Una città industriale senza piano regolatore

Negli anni cinquanta, poi, Bassano accentuò quel carattere di città industriale che aveva assunto fin dalla seconda metà degli anni venti: alla fabbrica dei Westen si aggiungono nel primo decennio dopo la guerra numerose aziende che producono cucine a gas e prodotti metallurgici e metallici, dalla Faacme alla Alpes all’Elba per le cucine, fino alla fabbrica di biciclette Wilier Triestina e all’industria per macchine utensili di Walter Pedrazzoli. Il ruolo giocato in questo periodo dalle amministrazioni comunali, guidate in successione da Giovanni Cosma, Giovanni Bottecchia e Quirino Borin, fu nella maggior parte dei casi di semplice accompagnamento: si garantirono, certo, le opere di urbanizzazione necessarie ai nuovi insediamenti manifatturieri, ma si trattava di scelte operate in risposta alle sollecitazioni provenienti dal mondo produttivo più che di interventi consapevolmente programmati.
piccinato 1Una prima fase di concreta riflessione sulle prospettive di sviluppo economico e urbanistico della città si aprì nel 1955, quando fu avviata la progettazione del piano regolatore cittadino, affidata al noto urbanista Luigi Piccinato. Il piano, presentato in consiglio comunale nel 1959, metteva in evidenza le crescenti difficoltà create da uno sviluppo spontaneo, che si era indirizzato prevalentemente lungo la direttrice di viale Venezia, sconfinando nel territorio del Comune di Cassola e mescolando insediamenti industriali e residenziali. La soluzione proposta dal progettista prevedeva rigidi vincoli a ulteriori espansioni al di fuori dell’area a sud del centro, individuata come quella verso la quale bisognava indirizzare un più razionale sviluppo della città.

Quei vincoli imposti dal piano suscitarono tuttavia i timori di quanti temevano un esodo degli investimenti industriali e soprattutto dell’attività edilizia verso i comuni contermini, già favoriti peraltro dalle agevolazioni fiscali previste dalla legge 635/1957 in favore delle aree depresse dell’Italia centrale e settentrionale. Per di più, gli ostacoli imposti allo sviluppo delle frazioni esterne al centro principale minacciavano di favorirne un ulteriore spopolamento e la perdita di quelle identità locali che costituivano anche un importante bacino di consenso per il partito cattolico.

Nonostante gli sforzi del sindaco Pietro Roversi per giungere all’approvazione del piano regolatore, opportunamente modificato, questa venne infine rinviata in vista della stesura di un piano intercomunale che comprendesse anche i comuni di Cassola, Romano e Pove. Il mancato accordo tra le diverse amministrazioni comunali impedì ogni effettivo passo avanti in questa direzione per buona parte degli anni ’60.

Verso una politica di programmazione

bassano vespa bnet 1Nel frattempo, l’espansione edilizia continuò secondo criteri dettati dagli interessi della speculazione privata, che il Comune tentò di indirizzare attraverso una più articolata progettazione degli importanti interventi infrastrutturali (acquedotto, fognatura, strade, scuole e servizi pubblici) resi necessari dall’accelerato sviluppo urbano. L’espansione industriale, favorita dal declino delle attività agricole e dalla conseguente abbondanza di manodopera, trovava incentivo nella trasformazione di numerosi terreni agricoli in aree edificabili, grazie alla quale molti proprietari di qualche campo poterono accedere al credito necessario per avviare nuove attività manifatturiere.

La crisi congiunturale del 1963-64 impose una battuta d’arresto a questo processo, facendo emergere in maniera evidente i problemi di un tessuto industriale ancora fragile e della stessa grande impresa: è in questi anni che le «Smalterie» mostrano i primi sintomi di una crisi, dovuta all’emergere di nuovi concorrenti e all’arresto dell’espansione dell’edilizia, che costituiva il principale committente per i prodotti dell’azienda. Le minacce alla tenuta dell’occupazione derivanti dalle difficoltà del principale stabilimento cittadino stimolarono una crescente attenzione da parte della classe dirigente per le problematiche sollevate dalla corrente di sinistra sindacale all’interno della Democrazia cristiana locale.

Risale a questo periodo il coinvolgimento di esponenti della sinistra democristiana all’interno della seconda amministrazione Roversi, nel quadro di un accordo interno volto a stimolare l’appoggio alle richieste avanzate dal Comune da parte di referenti politici a livello ministeriale appartenenti a correnti diverse.

Nuovi finanziamenti statali apparivano infatti indispensabili per avviare tutta una serie di progetti concepiti in risposta alle problematiche emerse nella prima metà degli anni sessanta. Si trattava, da un lato, di contenere il declino dell’agricoltura, i cui effetti occupazionali non potevano più essere immediatamente riassorbiti da un tessuto industriale in difficoltà o in fase di ristrutturazione. L’istituzione di consorzi e di cooperative agroalimentari, accompagnata dalla costruzione delle necessarie strutture di servizio, dal macello comunale alla centrale del latte al mercato ortofrutticolo, andava affiancata da una serie di interventi volti a garantire scuole, strade e uffici pubblici a tutte le frazioni. D’altro canto, le continue minacce di ridimensionamento di organico provenienti dalla direzione delle «Smalterie» potevano essere scongiurate a breve termine soltanto attraverso la concessione di finanziamenti e di agevolazioni da parte dello Stato, come avvenne nel 1968. In prospettiva, una risposta più articolata alla crisi sempre più evidente della grande impresa prevedeva peraltro la valorizzazione del ruolo di Bassano come centro comprensoriale di servizi e come snodo di importanti vie di comunicazione.

L’approvazione nel 1969 da parte dell’amministrazione guidata dal sindaco Pietro Fabris di un nuovo piano regolatore, per quanto prevista dalla legge 765/1965, che imponeva a tutti i Comuni di dotarsi di questo strumento di programmazione e regolamentazione degli usi del suolo, rispondeva di fatto a quelle esigenze. Si trattava innanzitutto di vincolare il tracciato delle nuove arterie stradali verso Trento e verso Thiene prevedendone nel dettaglio l’attraversamento del territorio comunale e dislocando in prossimità di queste le aree destinate a nuove attività industriali e commerciali. I nuovi servizi di livello comprensoriale (le scuole superiori e gli impianti sportivi, ma anche la sede del futuro nuovo ospedale) venivano concentrati nell’area di Santa Croce, a sud del centro storico. La definitiva adozione del piano regolatore nel 1972 e l’avvio della costruzione del tratto di circonvallazione bassanese della superstrada, con le relative strade di collegamento, segnano il successo della politica di programmazione coerentemente perseguita fin dalla metà degli anni sessanta, successo parzialmente inficiato dal mancato prolungamento degli assi superstradali verso sud e verso ovest.

La crisi dell’industria: verso una città di servizi

La graduale trasformazione della città in un centro di servizi commerciali e amministrativi fu accelerata dalla gravissima crisi economica e sociale esplosa nel 1976 in seguito all’improvvisa chiusura delle «Smalterie» e al licenziamento di più di 1.300 operai, deciso dai Westen nel Natale 1975. L’immediata mobilitazione di tutti i referenti politici consentì, sia pure a fatica, di garantire la messa in opera dei necessari ammortizzatori sociali e la ripresa dell’attività della fabbrica, per quanto notevolmente ridimensionata. La seconda metà degli anni settanta vide l’amministrazione guidata da Sergio Martinelli affrontare ulteriori crisi occupazionali e le ricadute a livello locale delle fortissime tensioni sociali e politiche di quel decennio.

piazza liberta 70Nel mutato e caotico contesto economico di quegli anni, l’assorbimento dell’occupazione fu garantito dalla crescita delle piccole e medie imprese attive nei settori del mobile, della ceramica, dell’edilizia, rafforzate dalla presenza di tutta una serie di servizi e di un tessuto di aziende meccaniche spesso fondate nei decenni precedenti da dipendenti delle «Smalterie», capaci di fornire macchinari e supporto tecnico alla modernizzazione di produzioni tradizionali.

Il volto della città cambiò rapidamente proprio in quegli anni: alle contrapposizioni fra città e campagna, al ruolo della grande impresa e dei suoi operai si sostituì rapidamente una nuova articolazione sociale ed economica, in cui l’industrializzazione diffusa e le funzioni commerciali e di servizio ridisegnano l’identità del territorio e della città stessa.

Troppo tardi

Volendo tirare le fila della storia sin qui ricostruita a grandi tratti, appare evidente che l’atteggiamento del governo municipale è profondamente mutato negli anni del dopoguerra, a dispetto della continuità politica conosciuta dall’amministrazione per mezzo secolo: dagli interventi “estemporanei” degli anni cinquanta si passa infatti alla scelta politica di non vincolare un uso a volte spregiudicato delle risorse e del territorio, quindi si afferma la necessità di una “programmazione” che dal sostegno politico all’occupazione e alla grande impresa degli anni Sessanta transita rapidamente negli anni Settanta a una visione dello sviluppo tutta affidata al mercato e all’imprenditorialità diffusa, cui la politica deve limitarsi a fornire servizi e infrastrutture di supporto.
I risultati di questo atteggiamento “flessibile” della politica appaiono a prima vista estremamente positivi, in particolare per quel che riguarda la formazione e il consolidamento di un tessuto produttivo sano, capace di competere sui mercati internazionali e di assorbire nel giro di pochi anni gli effetti occupazionali di una crisi come quella determinata dalla chiusura del più grande stabilimento industriale presente in città. Eppure quel modello di sviluppo presenta dei costi nascosti, che mettono in evidenza un fondamentale anacronismo nell’interpretazione proposta da Bagnasco & Trigilia (1984), che negli anni ottanta indicavano a ragione l’urgenza di un intervento di indirizzo più attivo da parte degli enti locali, di un “governo” dello sviluppo, senza il quale le “esternalità negative” prodotte dal laissez faire avrebbero preso il sopravvento.

panorama 80Il percorso storico sin qui delineato mette chiaramente in evidenza che già allora era troppo tardi. Era troppo tardi non solo per salvaguardare le risorse naturalistiche di un territorio invaso da un amalgama di residenza e insediamenti produttivi, ma anche e soprattutto per dare fiato ai progetti strategici che puntavano a fare di Bassano uno snodo di livello superiore, capace di valorizzare appieno quella posizione geografica fortunata che caratterizza la città.

La vicenda della costruzione della superstrada negli anni Settanta appare emblematica. Concepita inizialmente come un’opera di valenza regionale, nuova grande strada di collegamento da Padova e da Venezia, via Bassano, verso Trento e la Germania, finì per configurarsi come più modesto allacciamento tra i centri pedemontani dell’Alto Vicentino e la Valsugana, imperniato sulla circonvallazione di Bassano. Il ridimensionamento di quelle ambizioni infrastrutturali trova origine nell’impossibilità concreta di proseguire verso sud, verso Padova da un lato e verso Venezia dall’altro, i lavori di costruzione di una infrastruttura viaria che per sua natura richiedeva spazio e terreni liberi. Già all’inizio degli anni settanta lo spazio a sud della città risultava tutto occupato da attività a vario titolo remunerative, dietro le quali stavano interessi capaci di mobilitarsi a propria difesa rendendo di fatto impossibile individuare una soluzione condivisa.

Se non vi fosse stata l’opposizione all’esproprio da parte dei coltivatori di asparagi tra Bassano e Rosà, la costruzione della superstrada avrebbe incontrato ostacoli da parte dei proprietari di case e di capannoni già costruiti o in corso di costruzione, nel mosaico dei diversi tempi di attuazione della pianificazione urbanistica da parte dei singoli Comuni. La crescita a macchia d’olio dell’insediamento aveva ormai da qualche tempo cominciato a rompere ogni distinzione fra città e campagna, innervando il territorio di una rete di strade provinciali, comunali e vicinali che attraversavano i centri storici, si interrompevano in corrispondenza dei passaggi a livello della ferrovia, si incrociavano fra loro con precedenze e semafori rallentando un traffico automobilistico che già allora appariva insostenibile.

Un capoluogo mancato

La responsabilità di tutto questo non era certo dell’amministrazione comunale bassanese, ma di una mancata capacità di coordinare l’uso del territorio a livello sovracomunale, propria di tutta l’area padana e veneta ed emersa in maniera evidente nel Bassanese sin dagli anni Sessanta, quando il tentativo di costruire un piano regolatore intercomunale mostrò tutte le difficoltà e le diffidenze che si opponevano a una soluzione che a prima vista poteva apparire non solo la più logica ma anche la più opportuna. D’altro canto, proprio il timore di favorire un esodo dell’attività edilizia e industriale verso i comuni limitrofi costituì la ragione principale della mancata approvazione del piano regolatore da parte del Comune di Bassano con dieci anni di anticipo rispetto a quando questa divenne possibile. Sta forse qui, nel ritardo con cui la città e la sua amministrazione si posero soltanto alla vigilia degli anni settanta l’obiettivo esplicito di svolgere una funzione di coordinamento per altri Comuni, nei quali lo sviluppo della residenza e dell’industria avrebbe potuto trovare spazio per articolarsi in maniera razionale, l’occasione perduta da Bassano per diventare davvero il centro non solo funzionale ma anche organizzativo e in prospettiva amministrativo di un’area più ampia, per diventare insomma davvero una «città».

Il tema del rapporto tra Bassano e i comuni limitrofi è rimasto sullo sfondo in questo saggio, che ha privilegiato le vicende dell’economia urbana rispetto al contesto locale. Eppure le considerazioni sin qui proposte indicano proprio nello studio delle dinamiche intercomunali una prospettiva di ricerca capace di offrire risposte meno provvisorie agli interrogativi che riguardano il percorso di sviluppo di un’area che sempre meno, nel corso del secondo novecento, coincide con il comune di Bassano.

Riferimenti

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